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Il canto del soldato (Franca Landi, 2008) (0 Commenti, scrivi tu)

Sono,
come un sasso gettato
al di là del fossato
non son acqua, non son terra
solo un giovane in guerra.

Non conosco il perché
di si tanto rancore,
non conosco il perché
di un immenso dolore

Ma… la chiamano guerra
per dei giusti ideali.
Non c’è il giusto,
non c’è il torto
al di là del fossato
c’è un ragazzo che è morto.

Per che cosa è morto!

Per un pezzo di suolo
dal petrolio corrotto.
Mi hanno preso e tirato
come un sasso buttato
al di là del fossato.

Son caduto, mi sono alzato,
poi mi hanno sparato
son caduto…
nel mio petto c’è un buco
sono morto.

Poi mi hanno sepolto.
Mi han coperto con un sasso
vi hanno scritto il mio nome,
una data e una lode al coraggio,
era il dieci di maggio.

A mia madre
hanno stretto la mano….
Quale onore!
Ma il dolore
ha cambiato il suo cuore
ora è… un pezzo di sasso!

(Composta e recitata da Franca Landi)

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Canto notturno di un pastore errante dell’Asia (G. Leopardi) (0 Commenti, scrivi tu)

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
contemplandoi deserti, indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
la vita del pastore.
Sorge in sul primo albore,ùmove la greggia oltre pel campo, e vede
greggi, fontane ed erbe;
poi stanco si riposa in su la sera;
altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
al pastor la sua vita,
la vostra vita a voi? dimmi: ove tende
questo vagar mio breve,
il tuo corso immortale?

Vecchierel bianco, infermo,
mezzo vestito e scalzo,
con gravissimo fascio in su le spalle,
per montagna e per valle,
per sassi acuti ed alta rena, e fratte,
al vento, alla tempesta, e quando avvampa
l’ora, e quando poi gela,
corre via, corre, anèla,
varca torrenti e stagni,
cade, risorge, e più e più s’affretta,
senza posa o ristoro,
lacero, sanguinoso; infin ch’arriva
colà dove la via
e dove il tanto affaticar fu vòlto:
abisso orrido, immenso,
ov’ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
è la vita mortale.

Nasce l’uomo a fatica,
ed è rischio di morte il nascimento.
prova pena e tormento
per prima cosa; e in sul principio stesso
la madre e il genitore
il prende a consolar dell’esser nato.
Poi che crescendo viene,
l’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre
con atti e con parole
studiasi fargli core,
e consolarlo dell’umano stato:
altro ufficio più grato
non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perchè dare al sole,
perchè reggere in vita
chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura,
perchè da noi si dura?
Intatta luna, tale
è lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
e forse del mio dir poco ti cale.

Pur tu, solinga, eterna peregrina,
cge sì pensosa sei, tu forse intendi,
questo viver terreno,
il patir nostro, il sospirar, che sia;
che sia questo morir, questo supremo
scolorar della terra, e venir meno
ad ogni usata compagnia.
E tu certo comprendi
il perchè delle cose, e vedi il frutto
del mattin, della sera,
del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
rida la primavera,
a chi giovi l’ardore, e che procacci
il verno co’ suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
che son celate al semplice pastore.

Spesso quand’io ti miro
star così muta in sul deserto piano,
che, in suo giro lontano, al ciel confina;
ovver con la mia greggia
seguirmi viaggiando a mano a mano;
e quando miro in cielo arder le stelle;
dico fra me pensando:
A che tante facelle?
che fa l’aria infinita, e quel profondo
infinito seren? che vuol dir questa
solitudine immensqa? ed io che sono?
Così meco ragiono: e della stanza
smisurata e superba
e dell’innumerabile famiglia;
poi di tanto adoprar, di tanti moti
d’ogni celeste, ogni terrena cosa,
girando senza posa,
per tornar sempre là donde son mosse;
uso alcuno, alcun frutto
indovinar non so: Ma tu per certo,
giovinetta immortal, conosci il tutto.
Questo io conosco e sento,
che degli eterni giri,
che dell’esser mio frale,
qualche bene o contento
avrà fors’altri; a me la vita è male.

O greggia mia che posi, oh te beata,
che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perchè d’affanno
quasi libera vai;
ch’ogni stento, ogni danno,
ogni estremo timor subito scordi;
ma più perchè giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe,
tu se’ queta e contenta;
e gran parte dell’anno
senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra,
e un fastidio m’ingombra
la mente, ed uno spron quasi mi punge
sì che , sedendo, più che mai son lunge
da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
e non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
o greggia mia, nè di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
Dimmi: perchè giacendo a bell’agio, ozioso,
s’appaga ogni animale;
me, s’io giaccio in riposo, il tèdio assale?

Forse s’avess’io l’ale
da volar su le nubi,
e noverar le stelle ad una ad una,
o come il tuono errar di giogo in giogo,
più felice sarei, dolce mia greggia,
più felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
mirando all’altrui sorte, il mio pensiero:
forse in qual forma, in quale
stato che sia, dentro covìle o cuna,
è funesto a chi nasce il dì natale.

(Letta da Eddangela)

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MONTECITORIO (Giulia Curi) (0 Commenti, scrivi tu)

L’aria frizzantina                                                         
mi sfiorava la pelle,                                                    
il canto degli uccelli                                                    
era dolce e delicato;                                                    
dinanzi a me                                                                
la voce del silenzio                                                     
creava un’insolita atmosfera                                        
dipinta da grandi pittori,                                              
innamorati della vita.                            

(scritta e recitata da Giulia Curi , V B C.D. Karol Woityla di Palestrina - RM)

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