Archivio di Maggio, 2007


IL SABATO DEL VILLAGGIO (G. Leopardi) (0 commenti, scrivi tu)

La donzelletta vien dalla campagna,
in sul calar del sole,
col suo fascio dell’erba; e reca in mano
un mazzolin di rose e di viole,
onde, siccome suole,
ornare ella si appresta
dimani, al dì di festa, il petto e il crine.
Siede con le vicine
su la scal a filar la vecchierella,
incontro là dove si perde il giorno;
e novellando vien del suo buon tempo,
quando ai dì della festa ella si ornava,
ed ancor sana e snella
solea danzar la sera intra di quei
ch’ebbe compagni dell’età più bella.
Già tutta l’aria imbruna,
torna azzurro il sereno, e tornan l’ombre
giù da’ colli e da’ tetti
al biancheggiar della recente luna.
Or la squilla dà segno
della festa che viene;
ed a quel suon diresti
che il cor si riconforta.
I fanciulli gridando
su la piazzuola in frotta,
e qua e là saltando
fanno un lieto romore:
e intanto riede alla sua parca mensa,
fischiando, il zappatore,
e seco pensa al dì del suo riposo.
Poi, quando intorno è spenta ogni altra face,
e tutto l’altro tace,
odi il martel picchiare, odi la sega
del legnaiuol, che veglia
nella chiusa bottega alla lucerna,
e s’affretta, e s’adopra
di fornir l’opra anzi il chiarir dell’alba.

Questo di sette è il più gradito giorno,
pien di speme e di gioia:
diman tristezza e noia
recheran l’ore, ed al travaglio usato
ciascun in suo pensier farà ritorno.
Garzoncello scherzoso,
cotesta età fiorita
è come un giorno d’allegrezza pieno,
giorno chiaro, sereno,
che precorre alla festa di tua vita.
Godi, fanciullo mio; stato soave,
stagion lieta è cotesta.
Altro dirti non vo’: ma la tua festa
ch’anco tardi a venir non ti sia grave.

(Letta da Eddangela)

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II CORO dell’ “ADELCHI” (A. Manzoni) (0 commenti, scrivi tu)

Sparsa le trecce morbide
sull’affannoso petto,
lenta le palme, e ròrida
di morte il bianco aspetto,
giace la pia, col tremolo
sguardo cercando il ciel.

Cessa il compianto: unanime
s’innalza una preghiera:
calata in su la gelida
fronte, una man leggiera
sulla pupilla cerula
stende l’estremo vel.

Sgombra, o gentil, dall’ansia
mente i terrestri ardori;
leva allEteno u candido
pensier d’offerta, e muori:
fuor della vita è il temine
del lungo tuo martir.

Tal della mesta, immobile
era quaggiuso il fato:
sempre un obblio di chiedere
che le saria negato:
e al Dio de’ santi ascendere,
santa del suo patir.

Ahi! nelle insonni tenebre,
pei claustri solitari,
tra il canto delle vergini,
ai supplicati altari,
sempre al pensier tornavano
gl’irrevocati dì;

quando ancor cara, improvida
d’un avvenir mal fido,
ebbra spirò le vivide
aure del Franco lido,
e tra le nuore Saliche
invidiata uscì:

quando da un poggio aereo,
il bion crin gemmata,
vedea nel pian discorrere
la caccia affaccendata,
e sulle sciolte redini
chino il chiomato sir;

e dietro a lui la furia
de’ corridor fumanti;
e lo sbandarsi, e il rapido
resir dei veltri ansanti;
e dai tentati triboli
l’irto cinghiale uscir;

e la battuta polveere
rigar di sangue colto
dal regio stral: la tenera
alle donzelle il volto
volgea repente, pallida
d’amabil terrore.

Oh Mosa errante! oh tepidi
lavacri d’Aquisgrano!
ove deposta l’orrida
maglia, il guerrier sovrano
scendea del campo a tergere
il nobile sudor!

Come rugiada al cespite
dell’erba inaridita,
fresca nwegli arsi calami
fa rifluir la vita,
che verdi ancor risorgono
nel temperato albor;

tale al pensier, cui l’empia
virtù d’amor fatica,
discende il refrigerio
d’una parola amica,
e il cor diverte ai placidi
gaudii d’un altro amor.

Ma come il sol che reduce
l’erta infocata scende,
e con la vampa assidua
l’immobil aura incende,
risorti appena i gracili
steli riarde il suol,

ratto così dal tenue
obblio torna immortale
l’amor sopito, e l’anima
impaurita assale
e le sviate immagini
richiama al noto duol.

Sgombra, o gentil, dall’ansia
mente i terrestri ardiri;
leva all’Eterno un candido
pensier d’offerta, e muori:
nel suol che dee la tenera
tua spoglia ricoprir,

altre infelici dormono,
che ilo duol consunse; orbate
spose dal brando, e vergini
indarno fidanzate;
madri, che i nati videro
trafitti impallidir.

Te della rea progenie
degli oppressor dicesa,
cui fu prodezza il numero,
cui fu ragion l’offesa,
e dritto il sangue, e gloria
il non aver pietà,

te collocò la provida
sventura in fra gli oppressi:
muori compianta e placida:
scendi a dormir con essi:
alle incolpate cenerri
nessuno insulterà.

Muori; e la faccia esanime
si ricomponga in pace;
com’era allor che impròvida
d’un avvenir fallace,
lievi pensier virginei
solo pingea. Così

dalle squarciate nuvole,
si svolge il sol cadente,
e dietro il monte, imporpora
il trepido occidente:
al pio colono augurio
di più sereno dì.

(Letta da Eddangela)

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Canto notturno di un pastore errante dell’Asia (G. Leopardi) (0 commenti, scrivi tu)

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
contemplandoi deserti, indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
la vita del pastore.
Sorge in sul primo albore,ùmove la greggia oltre pel campo, e vede
greggi, fontane ed erbe;
poi stanco si riposa in su la sera;
altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
al pastor la sua vita,
la vostra vita a voi? dimmi: ove tende
questo vagar mio breve,
il tuo corso immortale?

Vecchierel bianco, infermo,
mezzo vestito e scalzo,
con gravissimo fascio in su le spalle,
per montagna e per valle,
per sassi acuti ed alta rena, e fratte,
al vento, alla tempesta, e quando avvampa
l’ora, e quando poi gela,
corre via, corre, anèla,
varca torrenti e stagni,
cade, risorge, e più e più s’affretta,
senza posa o ristoro,
lacero, sanguinoso; infin ch’arriva
colà dove la via
e dove il tanto affaticar fu vòlto:
abisso orrido, immenso,
ov’ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
è la vita mortale.

Nasce l’uomo a fatica,
ed è rischio di morte il nascimento.
prova pena e tormento
per prima cosa; e in sul principio stesso
la madre e il genitore
il prende a consolar dell’esser nato.
Poi che crescendo viene,
l’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre
con atti e con parole
studiasi fargli core,
e consolarlo dell’umano stato:
altro ufficio più grato
non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perchè dare al sole,
perchè reggere in vita
chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura,
perchè da noi si dura?
Intatta luna, tale
è lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
e forse del mio dir poco ti cale.

Pur tu, solinga, eterna peregrina,
cge sì pensosa sei, tu forse intendi,
questo viver terreno,
il patir nostro, il sospirar, che sia;
che sia questo morir, questo supremo
scolorar della terra, e venir meno
ad ogni usata compagnia.
E tu certo comprendi
il perchè delle cose, e vedi il frutto
del mattin, della sera,
del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
rida la primavera,
a chi giovi l’ardore, e che procacci
il verno co’ suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
che son celate al semplice pastore.

Spesso quand’io ti miro
star così muta in sul deserto piano,
che, in suo giro lontano, al ciel confina;
ovver con la mia greggia
seguirmi viaggiando a mano a mano;
e quando miro in cielo arder le stelle;
dico fra me pensando:
A che tante facelle?
che fa l’aria infinita, e quel profondo
infinito seren? che vuol dir questa
solitudine immensqa? ed io che sono?
Così meco ragiono: e della stanza
smisurata e superba
e dell’innumerabile famiglia;
poi di tanto adoprar, di tanti moti
d’ogni celeste, ogni terrena cosa,
girando senza posa,
per tornar sempre là donde son mosse;
uso alcuno, alcun frutto
indovinar non so: Ma tu per certo,
giovinetta immortal, conosci il tutto.
Questo io conosco e sento,
che degli eterni giri,
che dell’esser mio frale,
qualche bene o contento
avrà fors’altri; a me la vita è male.

O greggia mia che posi, oh te beata,
che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perchè d’affanno
quasi libera vai;
ch’ogni stento, ogni danno,
ogni estremo timor subito scordi;
ma più perchè giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe,
tu se’ queta e contenta;
e gran parte dell’anno
senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra,
e un fastidio m’ingombra
la mente, ed uno spron quasi mi punge
sì che , sedendo, più che mai son lunge
da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
e non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
o greggia mia, nè di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
Dimmi: perchè giacendo a bell’agio, ozioso,
s’appaga ogni animale;
me, s’io giaccio in riposo, il tèdio assale?

Forse s’avess’io l’ale
da volar su le nubi,
e noverar le stelle ad una ad una,
o come il tuono errar di giogo in giogo,
più felice sarei, dolce mia greggia,
più felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
mirando all’altrui sorte, il mio pensiero:
forse in qual forma, in quale
stato che sia, dentro covìle o cuna,
è funesto a chi nasce il dì natale.

(Letta da Eddangela)

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Vedo la neve, di Davide (0 commenti, scrivi tu)

Vedo la neve,
vedo coriandoli bianchi svolazzare,
vedo pezzetti di carta che si posano sulle cose,
vedo granelli di zucchero che si sciolgono al suolo,
vedo stelle di ghiaccio leggere che cadono,
vedo le farfalle che danzano in agli alberi,
vedo la neve.
(Recitata da Davide )

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Filastrocca d’estate, di Filippo (0 commenti, scrivi tu)

Pesci del mare venite da me,
sono l’estate, chi è più calda di me?
La belle cicale cantano nei prati;
sono i miei occhi assai delicati,
ho capelli lucenti e caldi come il sole,
scendono sulle spalle come capriole.
Il mio corpo è chiaro come la luna.
La mia veste è fatta di prati fioriti,
con fiori di pesco e di mandorli colorati
e la mia voce è dolce come una carezza delicata;
che sembra una poesia cantata,
per far dormire i bambini e le bambine,
belle e gentili come le ballerine,
il fruscio degli alberelli e il rumore delle onde,
vi canta la ninna nanna sulle sfonde.
(Recitata e scritta da Filippo)

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Risveglio del vento, di Rainer Maria Rilke (0 commenti, scrivi tu)

Nel colmo della notte,

a volte accade

che si risvegli,

come un bimbo vero, il vento.

Solo, pian piano vien per il sentiero,

Penetra nel villaggio addormentato.

Striscia guardingo,

sino alla montagna;

poi, si sofferma, tacito, in ascolto.

Pallide tutte le case, intorno;

tutte le querce, mute.

(Recitata da Sara)

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La Pace, di Antonella (0 commenti, scrivi tu)

La pace è un amore
è un bacio dolce.
Un fiore che sboccia.
La pace è un petalo
caduto da una rosa.
La pace è giocare
con gli amici
è un onda del mare.
La pace è un sole che batte
forte e che splende.
La pace è non litigare
è essere amici a tutti.
La pace è accarezzare
un cane
è disegnare insieme a un amico.
Antonella

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Neve, di Cristiano (0 commenti, scrivi tu)

Nelle strade silenziose
la neve cade e riposa.
Tutte le case sono sommerse
da una morbida coperta bianca.
Per terra c’è
lo zucchero filato
o la panna montata soffice.
Cadono dal cielo granellini di neve
come piccole palline di zucchero
che si sciolgono al sole.
(Recitata da Cristiano)

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Fiori del cielo, di Wen-i-tuo (0 commenti, scrivi tu)

La notte ha sparso
i fiori del cielo
soffici piume.
Con essi ha intessuto
un tappeto
che ha avvolto
dalla testa ai piedi
delicatamente
il mondo stanco.
(Recitata da Samantha)

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Il sole, di Vittoria (0 commenti, scrivi tu)

Il sole mi carezza
con le sue mani.
Le sue dita cocenti
sfiorano la mia pelle
e d’un tratto
una sensazione di felicità
e d’amore mi riempie l’anima.
Il sole sorride,
mi prende
tra le sue braccia
e mi solleva
nel cielo blu.
Mi porta a sfiorare
gli uccelli viaggiatori.
Dopo un ultimo sguardo,
al tramonto,
mi posa a terra
e, con un cenno di saluto,
sparisce dietro le montagne.
(Recitata da Vittoria)

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